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domenica 14 febbraio 2010

14 - Frammenti di diario

"Lunedì 13 luglio 2009

Ore 13 quasi – Sono molto in anticipo per il colloquio con la Dottoressa (…).
Sono qui fuori dalla doppia porta gialla del reparto.
No, non ci vorrei tornare, non vorrei essere ricoverata di nuovo, vorrei solo avere più colloqui e poi tornare a casina mia; vorrei non dover lavorare tutti i giorni per non andare incontro a crisi mentali. (…)
Sai una cosa? Io ora non so cosa dire, non mi sento fisica e vorrei non avere nulla a che fare con l’esterno; mi sento rallentata e fuori è troppo veloce…
Mi viene da piangere…vorrei Mark.

Oggi è troppo caldo, meglio rimanere al chiuso; il caldo mi agita troppo.

Ore 18.10 – (…) Vorrei scrivere del colloquio con la Dottoressa, ma ho la mente stanca, il colloquio mi ha stancata dentro, ho pianto e mi sento come se avessi avuto una crisi. Non ricordo bene ciò che ho detto e se l’ho detto in maniera comprensibile. La Dottoressa ha letto gli scritti che le ho lasciato l’ultima volta. Tra oggi e domani mi chiamerà per un appuntamento con il Dottore che forse sarà mercoledì, per parlare del mio lavoro (è questo il problema ora???) con l’aiuto degli assistenti sociali (almeno mi pare di aver capito questo…). Speriamo che i miei cari Dottori non mi abbandonino…
Questa è la realtà: Veronica non sta bene ed era ora che questa cosa venisse allo scoperto. Occorre sistemarla prima che lei si uccida…


Mercoledì 15 luglio 2009

(…) ieri sera, prima di andare a letto, ho pregato per non svegliarmi l’indomani; poi il pensiero è andato alle scatole di diazepam…troppo poche ancora. A giorni arriveranno le altre ricette e potrò acquistarne altre tre scatole. A quanto siamo? Non me lo ricordo. Non so nemmeno se e quando le prenderò, ma averle mi fa sentire tranquilla.
Colleziono quelle scatole come quando collezionavo le lattine di qualsiasi cosa (Coca Cola, Fanta, birre varie, ecc…). Le tenevo in una mensola in camera, vuote e pulite, ma manco a dirlo nel giro di poco le dovetti dapprima sistemarle in uno scatolone in cantina (anticamera del bidone della spazzatura) dove però si ammaccarono la maggior parte, così fui costretta a gettarle. Non ti dico chi mi disse di toglierle dalla mensola perché già lo puoi immaginare.
Ora, con le scatole di diazepam non sarà così. Me le prenderò  prima che mi vengano sequestrate.
Feci così anche con le boccette di bromazepam, ma quelle, messe lì in cucina, furono subito tolte da A. in una delle mie crisi, e consegnate al Dottore.
(…)"

"Alone in Kyoto" AIR (Talkie Walkie) - 2004





"Giovedì 16 luglio 2009

Ore  9 – compressa di valium
Ore 11.30 – compressa di valium
Ore 13 quasi – Giornata schifosa, o almeno io la percepisco così.
Tra poco il colloquio ma…come posso dirti…non mi aspetto nulla di buono, nonostante sia contenta di vedere i Dottori, i miei due cari Dottori.
Mi sento così forse perché io ho già deciso…non lo so, mi sento sola, insoddisfatta, vuota, insignificante, persa, inutile…Non nascondo che oggi pomeriggio, quando torno a casa, qualche scatola me la farò fuori…ciò che potrebbe frenarmi è la poca quantità di valium che ho. Ma forse oggi pomeriggio vorrò solo dormire profondamente…
CHE SCHIFO LA VITA…

Colloquio in due round.

Nel primo: mi sembra di parlare a vanvera, di dire cose insensate e addirittura di non essere (giustamente) compresa. Mi si chiede se ce la faccio a lavorare (ed io rispondo un no secco); mi si chiede se voglio l’invalidità (ed io rispondo un si secco). Ok sembra che la questione sia chiusa, per il Dottore è solo stato un fallimento (ha proprio detto così???). Dico che non voglio perderli e che voglio continuare a vederli, ma il Dottore mi dice che è inutile a questo punto, visto che il caso, con l’invalidità, sarebbe chiuso.
Mi agito, comunico che una parte di me vorrebbe morire e che l’altra invece vorrebbe avere una vita normale, vorrebbe uscire da questo casino.
Chiedo che cavolo ho in testa che non va e l’unica risposta che ottengo è che sono una squilibrata (accetto questo termine, mi ci sento alla grande).
Poi, d’un tratto, riferisco che se vado a casa commetterò un disastro (senza specificare esattamente cosa) e comunico che ho paura. Mi rispondono qualcosa, ma non ricordo per cui non posso riportare per iscritto.
Mi dicono di uscire dalla stanza (l’adorata stanza del Dottore) e di attenderli in fondo al corridoio nelle sedie. 
Mi ci vuole un po’ per uscire, non voglio, lì dentro sto troppo bene, sono al sicuro e protetta dal Male, ma alla fine seguo ciò che mi dicono e, uscendo, affermo di non soffrire d’ansia in quel momento, né di essere triste.
Ore 13.30 e poco più – 2 compresse di valium.
Mi rannicchio in una sedia, chiamo A. per chiedergli di parlare con il Dottore perché credo di non essere stata capita o di non aver parlato correttamente. A. s’arrabbia perché non può farlo e perché non può riferire ciò che io sento dentro. Ci chiudiamo il telefono in faccia.
Torno nella posizione fetale sopra la sedia; mi tengo le gambe con le braccia, il mento appoggiato sulle ginocchia. Inizio a piangere e a dondolarmi. Sguardo nel vuoto.
Poco più tardi, arriva il Dottore e mi da appuntamento per martedì 21 alle ore 13 e mi dice che potrebbe avere una soluzione, ma che la deve elaborare bene.
Rispondo che non c’ho capito nulla, lui mi da la mano e mi saluta dicendomi che posso rimanere lì fino alle 20 o finché non ritengo di stare meglio per uscire.
Rimango lì per un po’, nella medesima posizione: vorrei tagliarmi, avere tutte le capsule di diazepam, scomparire nel nulla, non essere mai nata…continuo a piangere. 
Alla fine mi alzo, lasciando tutti i miei “averi” sopra un’altra sedia e mi dirigo verso la stanza del mio caro Dottore. M’incrocio con un altro psichiatra e gli faccio cenno, credo con gli occhi, se posso entrare dal mio Dottore; lui entra  e quando esce mi dice che posso andare. 

Nel secondo: con le braccia attorno alla vita (in quel momento avrei desiderato essere piccolissima e il meno ingombrante possibile) e le lacrime agli occhi, mi siedo lentamente e gli parlo, gli comunico che per me martedì è un giorno lontanissimo, gli chiedo un consiglio per andare avanti, gli ripeto che ho paura di andare a casa e di commettere  quello che solo io sapevo, gli imploro un aiuto…Lui cerca di tranquillizzarmi, mi parla con calma e mi dice che se proprio temevo di fare gesti nocivi alla mia salute, poteva ricoverarmi fino a martedì; ma poi mi confessa che non sarebbe una bella cosa; io concordo con lui.
Parliamo ancora (ed io ancora una volta non sono in grado di riportare perché non ricordo…); so che mi dice che se proprio non riesco ad andare al lavoro fino a martedì, posso farmi fare un certificato di malattia (cosa che seguo alla lettera non appena uscita dall’ospedale, telefonando al medico di famiglia). Il Dottore continua a parlarmi, cercando di rassicurarmi (potessi scrivere esattamente quello che mi ha detto…mannaggia alla mia memoria, quando sono in crisi non ricordo più nulla, ogni volta è così!). Smetto di piangere e durante il colloquio, lui costantemente mi chiede di guardalo negli occhi, cosa che non faccio mai, in generale, con nessuno (…). Alla fine riesco a stare un po’ meglio e riesco a riferirgli che nel mio caso, le lacrime non sono sintomo di nulla: posso star malissimo anche senza di esse e star “bene” con quelle che mi scorrono in viso.
Comunque alla fine mi accompagna fino al reparto, mi ridà la mano e mi dice “a martedì”.
Lo avrei abbracciato per quanta pazienza ci mette con me e per quanto, effettivamente,  le sue parole spesso mi danno conforto e sicurezza."

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